Rassegna stampa

Valentina D’Urbano: «Non sfornerò mai libri in cui non credo»

di
Redazione IoScrittore
La scrittrice trentenne al festival sul ring del “Fight writing” L’ultima fatica, “Quella vita che ci manca”, fa ancora centro

PORDENONE. Ha fatto centro al primo romanzo. Conquistando anche i critici più difficili con “Il rumore dei tuoi passi”. Eppure, Valentina D’Urbano già a trent’anni dice che non farà la scrittrice per sempre. «Se un giorno dovessi accorgermi che inventare storie diventa troppo faticoso, che invece di darmi gioia mi regala soltanto frustrazione, non esiterò a lasciar perdere. Non mi sento obbligata a essere scrittrice per sempre, magari sfornando libri in cui non credo».

Al futuro ci penserà. Il presente, intanto, le sorride. Visto che anche il secondo romanzo, “Acquanera”, e il terzo, “Quella vita che ci manca“, tutti pubblicati da Longanesi, stanno andando benissimo. A Pordenonelegge, Valentina D’Urbano è salita sul ring degli scrittori per partecipare a “Fight writing”.

«Il primo romanzo l’ho scritto con leggerezza, il secondo per essere onesta con me stessa – spiega Valentina D’Urbano -. Perché volevo capire davvero se ‘Il rumore dei tuoi passi’ mi era scappato dalle mani, oppure se potevo davvero fare il mestiere di narratore. Sembra che con ‘Acquanera’ io abbia superato la prova».

Allora sei ritornata alla Fortezza?

«Sì, per un motivo molto semplice. La Fortezza è il mio quartiere, il posto dove sono nata e cresciuta. E mi sembrava di non avere ancora chiuso i conti con le storie che volevo scrivere. Nel primo libro, in primo piano c’erano due ragazzi emarginati, ma non due delinquenti. In ‘Quella vita che ci manca’ sono andata più in là. Ho deciso di raccontare la microcriminalità. Pur sempre rubagalline, non la banda della Magliana».

Come l’hanno presa questa storia nel quartiere?

«Semplice: non l’hanno letta. Sanno che l’ho scritta, punto. Del resto, io da ragazzina era vista nel mio gruppo come quella strana perché mi piacevano i libri. Gli altri, i miei lettori veri, amano questi personaggi e sono pronti a giustificarli, a perdonarli».

Neanche un amico ha letto i suoi romanzi?

«Una sì. Ma dire che l’ha letto è un po’ esagerato. Diciamo che ci ha provato. È arrivata a pagina 18, poi ha lasciato stare. Ma non prendeva in mano un libro da quando aveva 13 anni. Però li hanno comprati i miei romanzi, per dire che quella scrittrice era amica loro».

La mosca bianca del quartiere?

«Andavo a scuola, quindi uscivo dal quartiere. Vestivo di nero, ascoltavo musica dark. Però non ero brava a scrivere: in quinta superiore ho preso il debito di Italiano. Alla professoressa non piaceva il mio stile. Dall’esame di maturità sono uscita con il minimo sindacale».

Come si è sognata di fare la scrittrice?

«Prima sono andata a lavorare, poi ho frequentato l’Istituto di design e mi sono messa a disegnare. Partecipare al torneo letterario ‘Io scrittore’ è stata una scommessa. Mi sono detta: mi piace leggere e scrivere, ci provo. Ma non speravo di vincere».

Così ha lasciato il mondo del design?

«Adesso sì. Come dicono a Roma: finché dura fa verdura. Poi mi è venuta una doppia tendinite alle mani, non posso più disegnare se non mi opero».

Dopo questi tre libri?

«Sto scrivendo una storia che si svolge fuori dalla Fortezza. Sempre sui temi dell’amore, dell’amicizia e dell’emarginazione. Ho anche altre idee. Faccio fatica, ma mi sento come un’atleta. L’allenamento serve, anche se devi

sputare l’anima. E penso, intanto, che potrebbe anche non durare».

In che senso?

«Non sono obbligata a scrivere per sempre. Se dovesse diventare una fonte di frustrazione, se dovessi non divertirmi più, non avrò alcuna esitazione e smetterò».

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