Il grande pubblico ha conosciuto André Aciman con il suo romanzo più celebre, Chiamami col tuo nome (Guanda, 2008), complice anche la fortuna dell’omonimo film diretto da Luca Guadagnino e uscito nel 2018. Dieci anni, tra un romanzo e una pellicola, che Aciman ha riempito di immagini e parole, da Notti bianche (Guanda, 2010), a Harvard Square (Guanda, 2014), aVariazioni su un tema originale (Guanda, 2017), in cui l’autore ha sempre messo al centro della propria ricerca letteraria il racconto dei sommovimenti interiori dell’animo umano.
Mariana, ultima fatica di Aciman, in libreria sempre per Guanda da ottobre 2021, non fa eccezione. Nelle pagine di questo breve ma densissimo romanzo, André Aciman ci trasporta con un sofferto monologo nel dolore intimo e travolgente di una donna respinta, lucidissima nell’analisi del suo dramma amoroso.
Con ioScrittore.it André Aciman ha approfondito i suoi interessi e il suo approccio alla scrittura.
Mariana è un lungo flusso di pensiero, quasi di autoanalisi, della protagonista. Ragionando su questo e sui suoi precedenti romanzi, che ruolo hanno i meccanismi psicologici dei personaggi nella sua scrittura?
“Il personaggio che mi interessa di più è sempre quello che si ripiega in se stesso, che si guarda dentro, che cerca di capirsi. Quello che fatica a entrare in contatto con il mondo esterno e con gli altri, che restano alieni, forestieri. In Mariana, ma anche in Chiamami col tuo nome, i protagonisti non vengono neanche descritti fisicamente, perché in fondo quello che mi appassiona è la loro interiorità: mi interessa cercare di capire l’interiorità delle persone, non costruire trame”.
Se dovesse indicare un fil-rouge che lega i suoi libri, quale sarebbe?
“Da sempre quando scrivo, anche se si tratta di una recensione o del resoconto di un viaggio, non cerco mai di descrivere quello che ho davanti, ma la mia reazione a quello che fruisco. E di solito è una reazione paradossale, nel senso che cerco il paradosso tra me e il mondo esterno. Se c’è coerenza tra me e ciò che ho davanti, allora non mi interessa scriverne”.
Che influenza ha avuto sulla sua scrittura l’aver vissuto in diversi paesi del mondo e l’aver viaggiato molto?
“Dovrei dire che mi ha reso molto più tollerante verso gli altri, ma come ho spiegato il mondo esteriore non mi intriga. Quando mi dicono che un paesaggio è bellissimo, a me non interessa, cattura la mia attenzione solo se mi sembra di volerci abitare. Se non sono capace di ‘intromettermi’ in ciò che vedo, di desiderarlo, non mi suscita nulla”.
E conoscere più lingue? In qualche modo la influenza quando scrive o quando avviene il processo di traduzione dei suoi libri per editori stranieri?
“La traduzione francese solitamente non la controllo, perché, anche se è la mia lingua madre, non mi ci rispecchio granché. L’italiano, invece, mi attrae, è un linguaggio molto intimo per me e a cui sono affezionato. E poi l’italiano ha dei tempi verbali che all’inglese mancano, quindi nella traduzione bisogna ripercorrere tutto il pensiero, che assume una sfumatura più profonda. Ma non credo di essere particolarmente influenzato dalle lingue che conosco”.
Da cosa capisce di avere in mano una nuova storia?
“La cosa più importante è la prima frase: se manca non sono capace di iniziare. Ma ciò che davvero mi suggerisce un romanzo, o anche una novella, è il desiderio che avverto in me di vivere una determinata storia, anche se non l’ho mai vissuta. Mariana è un caso esemplare: non sono una donna, eppure ho trovato naturale parlare attraverso la voce di questa giovane respinta dall’uomo che ama”.
E come funziona per lei il processo di scrittura?
“In nessun modo particolare, ma c’è una cosa che faccio quando sono bloccato: prendo la metropolitana e lì, seduto con la penna e un piccolo bloc-notes, mi metto a scrivere. È una sorta di pausa dal dovere, perché ciò che si fa in metropolitana non conta. E il bello è che ciò che non conta può diventare un suggerimento, può far nascere qualcosa a cui non avevi ancora pensato, far diventare rilevante qualcosa di inessenziale. Però, per quanto riguarda il metodo, non ne ho uno specifico, non ho una programmazione. Appena mi sveglio, se non ho niente da fare, mi metto a scrivere. È sempre così: quando non sono impegnato scrivo o vado in bici”.
Perché si scrive, o meglio, perché lei scrive?
“L’atto di scrivere, di per sé, è spiacevole. La creazione, a un autore, a un pittore, a un artista, provoca dolore. Ma se non lo facessimo, non sapremmo cosa fare con noi stessi: la scrittura, per me, è un pretesto per vivere, è qualcosa che interpongo tra me e gli altri, come un paravento. A me piace il mondo, ma in fondo sono uno straniero”.
Quali sono le caratteristiche che, come lettore, cerca in un libro?
“Lo stile e il ritmo. Se non trovo il ritmo nella prima frase, nella prima riga di un romanzo che prendo in mano, capisco subito che quello scrittore non fa per me”.
Se dovesse dare un consiglio a un giovane aspirante scrittore, quale sarebbe?
“Come ho detto, per me la cosa più importante è il ritmo. Quando si scrive bisogna cercare il ritmo della frase, altrimenti si sta solo provvedendo a dare informazioni. Per trovarlo, per esempio, si può pensare a una poesia, o a una canzone, anche la canzone più banale ha comunque un ritmo. E poi quando si scrive bisogna essere veramente onesti con se stessi. Non devi ripetere ciò che ti è stato detto e che per questo credi che sia importante: scrivi quello che senti nelle viscere”.
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