Il miglior consiglio sulla scrittura me l’ha dato Donald Antrim. Alcuni anni fa gli avevo chiesto quali fossero le sue abitudini, i suoi ferri del mestiere, e lui mi aveva svelato un trucco: prova a scrivere quando hai poco tempo a disposizione, una mezz’ora o giù di lì – che so, prima di un impegno o di un appuntamento – e vedi che cosa salta fuori. Accendere il computer quando hai un’intera mattina davanti fa paura, mi aveva detto, ti carica di troppe aspettative. Quando hai pochi minuti, invece, sei più leggero. Più libero.
Aveva ragione. È così che ho cominciato a scrivere Il libro della pioggia. Era il tardo pomeriggio di un sabato dell’inverno tra il 2018 e il ’19. Ho buttato giù poche righe, giusto un paragrafo, e poi mi sono fermato perché dovevo uscire, ma mi è bastato rileggere quelle due o tre frasi per risvegliare un’emozione familiare, una scintilla di possibilità.
Nei cinque anni precedenti avevo fatto tutt’altro, limitandomi a scribacchiare qua e là appunti e imbastendo i primi capitoli di un romanzo che mi rigiravo nella testa da tempo. Quel sabato pomeriggio, però, grazie al consiglio di Donald Antrim, ho aperto una porta diversa. Ho cominciato a scrivere un’altra storia – una storia che conoscevo molto bene perché era, almeno in parte, la mia.
Nei giorni successivi sono andato avanti, poco alla volta. Ero cauto, avevo paura. Fino a quel momento non avevo mai preso in considerazione l’ipotesi di scrivere un memoir e neppure un testo di non-fiction che avesse, come narratore e testimone principale, una qualche versione di me stesso. Eppure sentivo, intuivo, di essere sulla strada giusta. Che cosa era cambiato? Ero più leggero e più libero, certo, ma a parte questo? Perché ero stato tanto restio, fino ad allora, a raccontare quella storia che era anche la mia?
Al centro del libro che stava lentamente prendendo forma – una mezz’ora alla volta – c’era un’assenza: la morte di un amico fraterno, Simone, un amico d’infanzia, compagno di tante avventure.
Dopo la sua morte, per mesi avevo sperimentato una solitudine fin lì sconosciuta: desideravo parlare di lui, della nostra amicizia e del vuoto che la sua scomparsa aveva spalancato, eppure non sapevo con chi parlarne. Non volevo essere di peso per i suoi familiari né per i nostri tanti amici, e del resto avevo la sensazione che le convenzioni sociali mi imponessero di vivere quel dolore privatamente, chiudendolo a chiave da qualche parte nel mio corpo. Soffocandolo. Bisogna essere forti! Bisogna andare avanti! Ovunque sentivo pronunciare frasi di questo tenore, che rimandavano alla retorica del “lasciare andare”.
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E qui, per me, stava il paradosso: il lutto ci aveva isolati, tutti quanti, amici e familiari. Ci aveva resi più soli, perché non disponevamo di un alfabeto emotivo per condividerlo. Non a parole, non di persona. Quello era un tabù che non si poteva infrangere. E così, una delle condizioni umane più comuni – il dolore provocato da una perdita – ci impediva di entrare in empatia gli uni con gli altri, di sentire insieme, di manifestare una vicinanza. Di certo lo impediva a me, quantomeno. Per questo ero stato tanto restio a mettere per iscritto questa storia: mi stavo attenendo a una regola sociale, a un codice non scritto. E tuttavia la scrittura – questo intuivo – poteva offrirmi una via d’uscita dal paradosso, e cioè la possibilità di dare una forma a quel dolore, trasformandolo in un’esperienza che avrei finalmente potuto condividere con gli altri, grazie alla parola scritta.
Ogni sera – conclusa la giornata di lavoro, dopo aver messo a letto mia figlia – mi sedevo alla scrivania e andavo avanti, poco alla volta. Scrivevo per mezz’ora, massimo un’ora, sapendo che poi sarei stato troppo stanco per continuare. Non stavo “combattendo” contro il dolore. Non lo stavo “superando” o “sconfiggendo”, altri verbi molto cari alla retorica dello stoicismo di fronte alla morte. Semmai, gli stavo lasciando un po’ di spazio nella mia giornata. Lo stavo accettando come una nuova parte di me.
L’AUTORE E IL LIBRO – Martino Gozzi, nato a Ferrara nel 1981, ha pubblicato il suo primo romanzo Una volta Mia (peQuod) nel 2004.
Traduttore di diversi autori inglesi e statunitensi, è amministratore delegato della Scuola Holden di Torino.
Con Feltrinelli ha pubblicato Giovani promesse e Mille volte mi ha portato sulle spalle, ed è ora in libreria per Bompiani con Il libro della pioggia.
Veniamo alla trama: Simone suona il basso mancino come Paul McCartney, ha una band, scrive musica, è così bravo che è destinato per forza al successo. Ha il dono di saper amare e farsi amare. Se ne va troppo presto. Fra passato e presente, fra memoria e meditazione, il narratore di questo romanzo-mémoir, spostandosi dalla luce della giovinezza alle ombre dell’età adulta, racconta il congedo lento ed eroico di un giovane uomo speciale e la traccia che ha lasciato nella vita degli amici. Come quando era nel mondo, e senza mai essere andato via – perché è così che fanno le persone speciali: ci sono e basta – Simone è la pietra di paragone, il punto di riferimento, l’irrinunciabile metro rispetto a cui misurare col passo pacato della maturità le tappe di una vita: Ferrara, Torino, i libri, la coppia, la paternità, la musica, la scrittura, i cambiamenti.
Fonte: www.illibraio.it
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