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"L’ultimo dei Mohicani" è una scatola nera: Laura Pugno torna con "Noi senza mondo"

17 Gennaio 2024 |
di
Redazione Il Libraio
In "Noi senza mondo" la scrittrice Laura Pugno ritrae il mondo fatto di parole che abbiamo intorno, molte delle quali in forma di libro, di animali, foglie, frutti e cose invisibili che sono tutte insieme più vaste e larghe di noi. Un mondo raggiunto e sviscerato in un'avventura interiore di un’anima collettiva, una riflessione su cosa significhi scrivere e sull’importanza della lettura, della memoria e pure della dimenticanza - Su ilLibraio.it un estratto, in cui l'autrice racconta: "L’ultimo dei Mohicani non è per me un libro dell’infanzia o dell’adolescenza. Eppure, sapevo di doverne scrivere qui, come si sanno le cose della scrittura, con la completezza del corpo..."

“Se mai abbiamo pensato il mondo vuoto, un mondo in cui siamo soli e perduti, non è questo”.

Noi senza mondo, il nuovo libro di Laura Pugno per Marsilio, è un’avventura interiore. Non è un memoir o una ricostruzione autobiografica, in quando l’anima in cui l’avventura si svolge non è esattamente quella di Pugno, che pure ne è l’autrice, ma è l’anima del mondo.

La scrittrice e poetessa classe ’70 ritrae quel mondo che abbiamo intorno e che è fatto di parole, molte delle quali in forma di libro, di animali, foglie, frutti e cose invisibili che sono tutte insieme più vaste e larghe di noi. Non finisce il mondo, finisce un mondo. E raccontando un passaggio di articolo – “il” articolo determinativo, “un” articolo indeterminativo – Laura Pugno traccia una strada per la coesistenza che rompe la dominanza dell’essere umano e del maschio sul contesto.

Per farlo, l’autrice – che dal 2015 al 2020 ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid – parte dai suoi pensieri, parole opere e omissioni, e dal romanzo L’ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper. Noi senza mondo è dunque avventura interiore di un’anima collettiva, riflessione su cosa significhi scrivere e su quale sia il senso della poesia, sull’importanza della lettura, della memoria, e pure della dimenticanza.

Laura Pugno Noi senza mondo

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo in esclusiva un brano:

Scatola nera

Il potere della scatola nera non risiede nel fatto che nasconde una risposta conoscibile, ma nel fatto che simboleggia i limiti della conoscenza… La scatola nera non può essere aperta perché, in quanto unità indivisibile e misteriosa, indica l’inconoscibile in sé.

Katherine Hayles, L’impensato. Teoria della cognizione naturale
traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini, effequ 2021

 

Per molto tempo non ho saputo davvero perché io abbia scelto di scrivere di questo libro.

L’ultimo dei Mohicani non è per me un libro dell’infanzia o dell’adolescenza. Eppure, sapevo di doverne scrivere qui, come si sanno le cose della scrittura, con la completezza del corpo.

Come si sanno queste cose è nell’oscurità, che poi diventa, quando la scrittura è finita, chiarezza, bagliore. Il tempo che questo percorso richiede non è negoziabile, o il libro non può essere scritto, e muta ogni volta, nessuno di noi può saperlo in anticipo.

In qualche modo, in prosa, il progetto calma l’attesa della mente, l’incertezza, l’apertura verso qualcosa che potrebbe, o potrebbe anche non esserci, la caccia, la quest.

Di fronte a questa necessità di tempo ho preso tempo.

Ho cercato intorno a me le tracce che il libro a venire mi lasciava in altri libri, ho seguito la sua pista, l’ho perduta e ritrovata. Ho rimandato molto a lungo, ho esitato molto a lungo, adesso è venuto il momento.

L’intermittenza è diventata chiara? Ancora no, ma appaiono i primi bagliori. Ora alcune cose di questo libro le so, o le sa quella parte – il tutto – di me che scrive.

Cos’è che non sai, che non sappiamo ancora?

Questo libro è una ricerca, seguendo una pista che nel romanzo è appena accennata, in ciò che non è scritto come in ciò che vi è scritto.

L’ombra, il rovescio del romanzo che esiste, ciò che è lasciato fuori quadro, che è inaccettabile al suo autore come ai suoi personaggi, e per generazioni e generazioni alle sue lettrici e ai suoi lettori, fino a oggi.

Quello che appare come in uno specchio al rovescio, mentre un mondo scompare.

In un certo senso, L’ultimo dei Mohicani è una scatola nera, un dispositivo per immagini o ologrammi che proietta intorno a noi un bosco.

Un mondo in cui accade la fine di un mondo.

Una scatola per conservare l’oscurità.

Dopo il disastro aereo, la scatola nera può risultare illeggibile. Il libro recuperato dall’alluvione, dalla frana della diga, può essere tanto danneggiato dall’acqua da rimanere indecifrabile. Lo scritto ritrovato in una necropoli, una sepoltura già quasi completamente ricoperta dal verde, già mondo-senza-di-noi, può essere tracciato in una lingua ormai completamente perduta, non traducibile senza una stele di Rosetta che la sveli.

Il libro, L’ultimo dei Mohicani, The Last of the Mohicans, sta quindi come un oggetto che contiene storie possibili, percorsi di scrittura e di lettura che se ne sono dipanati, quelli che racconterò qui.

Non è il contenuto reale di TLOTM_1826 (The Last of the Mohicans + la data di prima pubblicazione, la sigla lo rende simile al nome di una stella, qualcosa di abbagliante e sfuggente in una galassia lontana, una luce che ci arriva dal passato e che intanto ha smesso di splendere) a contare qui – al punto da essere stato sottoposto, nei film, nei fumetti e nelle storie che ne sono derivate negli anni trascorsi da allora, a una sorta di permutazione continua – quanto piuttosto, e questo è cruciale, il calore che ancora ne emana.

Emanare calore, la legge minima dei corpi vivi.

Forse, però, è più giusto che la sigla sia TLOTM_1757, l’anno della guerra franco-indiana in quello che oggi è lo stato di New York nel quale è ambientata la vicenda, trentadue anni prima della nascita di James Fenimore Cooper (1789-1851), in un tempo prima del tempo, prima della Rivoluzione americana, quando si decidono le sorti di enormi regioni del mondo, un crinale che non sa di esserlo.

(Nel 1769 James Watt brevetta la macchina a vapore, inizia l’Antropocene; inizierà molte altre volte nella Storia, forse è iniziato ancora prima, lo sappiamo adesso.)

Un mondo in cui il nome del mondo – come direbbe Ursula K. Le Guin, The Word for World is Forest – è bosco, foresta.

Un bosco abitato da presenze che ci precedono, una foresta di cui nonostante tutto vogliamo appropriarci come se fosse nostra dall’origine, un luogo che appare in qualche modo familiare e che allo stesso tempo è unheimlich, perturbante, perché è come i boschi della vecchia Europa da cui siamo fuggiti e allo stesso tempo non lo è.

Quella differenza perturbante che faremo, abbiamo fatto, scomparire. Vediamo, nella scatola nera, ciò che scompare, e come è scomparso.

E vediamo che contiene, questa scatola nera, TLOTM, pensieri non ancora del tutto pensati. Pensieri per chi l’ha scritto, per la sua epoca, non del tutto pensabili. Pensieri che ancora non abbiamo finito di pensare, o forse neanche cominciato.

(Hai sempre pensato che questa fosse la funzione della poesia, pensare fino in fondo, fino all’oltre, e forse, vedi, può farlo anche la prosa.)

Per questa ragione, TLOTM_1826 è un libro che non ha mai smesso di essere contemporaneo, e forse ancora di più, più drammaticamente, adesso.

Non per lo stile, o per le idee che contiene, che oggi ci risultano lontane, e peggio che lontane. È un libro oscuro anche di altra oscurità, un libro che parla di conquista e dominio, di sangue e di razza, e questa parola malata lo intorbida e lo avvelena. Eppure, questo libro contiene altri libri, non ancora scritti. E contiene parole, non dette, che ritrovo in una sorta di storia naturale di libri scritti da altri e letti in questo tempo, parole come “ricerca” (inchiesta, quest), “perdita” (scomparsa, vuoto, attraversamento di quel vuoto, a volte ritorno) e “metamorfosi” (in animali, in altre forme umane, in vite che non sono la tua e la mia).

Toccando il libro, la scatola nera o oscura, come se fosse un oggetto o un corpo, un manufatto preistorico o alieno che viene dalla nostra stessa civiltà, che cosa accade? Che cosa ci appare? Animali, uomini, donne. Ciò che scompare, è scomparso, sta ancora oggi – intorno a noi, per mano nostra, a contatto con ciò che siamo – scomparendo.

Prendiamo quest’oggetto-libro, con delicatezza, come se emanasse un leggero calore, o ancora, con precauzione, come se fosse incandescente. Mettiamolo al centro di un cerchio, di noi – tu, io, e altri che verranno – riuniti in cerchio. Guardiamo le figure e vediamo balzarne fuori pensieri e sogni, come immaginazioni dal centro di un fuoco o di uno schermo. Cerchi nel grano?

Un fuoco acceso o da poco spento, le braci ancora calde, uno schermo che ancora sembra che scintilli ed emani un bagliore di luce. Appaiono vite, si dipartono piste: forse arrivano tutte in uno stesso punto, a una fine che coincide con l’inizio, e possono essere seguite in ordine cronologico, o secondo il proprio desiderio.

Ecco cosa sarà questo libro, ancora una volta un quaderno di appunti, una storia di vite e letture che portano ad altre vite e letture. Un palinsesto che, raschiato via, fa affiorare le tracce di libri di cui forse non conoscevamo o avevamo dimenticato l’esistenza, alchimia di grande e piccolo, frattali, spirali, che si ripetono in forme altre, più grandi, immense, tendenti a infinito, e sempre le stesse.

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it

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