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Daniel Pennac e Stefano Bartezzaghi: "Le parole fanno il solletico" (e anche molto altro)

30 Marzo 2025 |
di
Eva Luna Mascolino
Un libro per l'infanzia o un divertissement per adulti? "Le parole fanno il solletico", scritto a quattro mani dal pluripremiato Daniel Pennac e dal noto semiologo e giornalista Stefano Bartezzaghi, è molto più di questo: una raccolta di racconti brevissimi e fulminanti, che si ispira a tante espressioni idiomatiche sul corpo umano per farci riflettere sul linguaggio, su come interpretiamo il mondo e sul potere della letteratura di mantenere viva la nostra immaginazione...

Stile alto, stile medio, stile basso: era il Medioevo quando si diffondeva questa tripartizione degli stili influenzata dalla retorica classica, che avrebbe poi segnato per secoli la letteratura occidentale.

In poche parole, secondo la distinzione dell’epoca, sarebbe stato opportuno utilizzare un registro più aulico per affrontare temi religiosi, filosofici ed epici, o comunque di una certa caratura; un registro medio per argomenti più comuni, possibilmente legati alla sfera dei sentimenti; e un registro più popolare nel caso di farse, satire o contenuti ispirati alla vita quotidiana, spesso legati alla dimensione più sensoriale dell’esistenza.

Ma cosa succederebbe se con stili e generi si giocasse e sperimentasse, contravvenendo volutamente a ogni indicazione di massima per poterla ribaltare, superare e mettere in discussione?

La risposta è nascosta (ma forse poi neppure troppo) fra le righe di capolavori ingegnosi e trascinanti come la Divina Commedia di Dante Alighieri, Gargantua e Pantagruel di François Rabelais, Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, Frankenstein di Mary Shelley, La signora Dalloway di Virginia Woolf, Amatissima di Toni Morrison

…e nel suo “piccolo”, in una delle sue varianti più recenti, nel nuovo libro scritto a quattro mani dal pluripremiato autore e docente francese Daniel Pennac e dal noto semiologo, scrittore e giornalista Stefano Bartezzaghi, che insieme hanno dato vita a Le parole fanno il solletico (Salani, con Yasmina Mélaouah).

Copertina del libro Le parole fanno il solletico di Daniel Pennac e Stefano Bartezzaghi

 

A prima vista, infatti, il loro sembrerebbe un testo paradidattico per l’infanzia, o un divertissement per chi (anche da più grande) ama la lingua italiana al punto da volerne rispolverare le espressioni idiomatiche.

Sì, perché il guizzo alla base de Le parole fanno il solletico consiste nel raccontarci attraverso l’uno o l’altro aneddoto inventato il retroscena di una frase fatta che magari usiamo tutti i giorni, o che invece ha senso solo in francese e che si rivela a noi per la prima volta: storielle sagaci con protagonisti ora adulti e ora bambini, che si muovono sempre al confine tra il linguaggio proprio e quello figurato.

Così facendo il volume passa in rassegna ben cinquanta modi di dire, la cui caratteristica è sempre quella di fare riferimento al corpo umano. Rimangiarsi la parola, buttare un occhio, avere il cuore in gola, spaccare il capello in quattro: tutti casi in cui basta interagire con una zia di nome Frignola, un bel micione o una pianta filippina per guardare il mondo da un’irresistibile prospettiva laterale.

Anche se in realtà, pur trattandosi di un’operazione che scompone la lingua per osservarla meglio, posizionando in primo piano i nostri aspetti più fisici e tangibili con aria sempre sorniona, sbaglieremmo a basarci solo su una rigida tripartizione degli stili e a descriverla frettolosamente come un’opera buffa.

Le parole fanno il solletico non è infatti un testo comico, e non è nemmeno un testo semplice o alla portata di chiunque: potremmo al massimo definirlo umoristico, nell’accezione più pirandelliana del termine, e per certi versi immediato – nel senso di non mediato, di scomposto, di fulminante.

Ma resta il fatto che il suo intento è quello di disorientarci e di stupirci, di coinvolgerci e di spingerci a riflettere, analizzando uno degli strumenti più complessi a nostra disposizione, e cioè il linguaggio, in tutte le sue connotazioni, le sue allusioni e la sua rete di riferimenti impliciti, qui peraltro illustrati con ponderata irriverenza dalla mano di Francesca Arena.

Un'illustrazione di Francesca Arena per il libro "Le parole fanno il solletico", che rappresenta Beethoven circondato da una campana, per indicare che fosse molto sordo Ludwig van Beethoven, rappresentato sordo come una campana

Come approcciarci alla lettura, dunque, e come interpretare quello che sembra essere il legittimo erede di due illustri genitori, ovvero Bianca Pitzorno con il suo Parlare a vanvera (Mondadori) e Raymond Queneau con il suo Esercizi di stile (Einaudi, traduzione di Umberto Eco e postfazione – udite udite – di Stefano Bartezzaghi), madre e padre a loro volta (e forse non per caso) di origine italiana e francese?

Innanzitutto, dovremmo tenere a mente che il nostro corpo ha smesso da tempo di essere un tabù, e che sviscerando meglio ciò che è massa, carne, istinto e materia potremmo arrivare a conclusioni di grande raffinatezza e impatto intellettuale, dopo aver errato tra insolite associazioni d’idee e curiose riscoperte semantiche:

A Lollo i conti non tornano.
«Comunque è curioso» commenta, «dire a qualcuno che non ha fame: ‘mangi come un uccellino’. Ma non l’hanno mai visto, un uccellino? Quelli non fanno altro che mangiare. Prendiamo i passeri. Ne avete mai visto uno leggere? Mai. Andare in bicicletta? Mai. Lavorare in cantiere? Mai. Sono troppo occupati a mangiare».

In secondo luogo, dovremmo accogliere la possibilità che mescolare l’alto e il basso, il sacro e il profano, non sia né un vezzo né un vizio, quanto piuttosto la scappatoia più disinvolta per raccogliere quel che di più interessante hanno da offrirci la solennità e la trivialità.

Del resto, se ci limitassimo a trovare in un’opera letteraria ciò che ci aspettavamo, ciò che in parte avevamo già intuito o che credevamo facesse al caso nostro, non attraverseremmo davvero la storia che contiene, finendo per non considerarla poi tanto efficace.

Le mancherebbe la forza di coglierci alla sprovvista, un po’ come si fa con i fiori di campo, e di strapparci via dalle consuetudini, piantando nella nostra memoria un seme in grado di germogliare ancora e ancora, scavando sentieri inediti tra i nostri stati d’animo e le nostre convinzioni

«In Italia voi non dite ‘tirare fuori i vermi dal naso’?»
«Casomai diciamo i ‘capperi’ o i ‘fichi’, ma non abbiamo bisogno dei poliziotti per estrarli».
«Ma no, in Francia lo diciamo in linguaggio figurato! Significa far dire la verità a qualcuno che non vuole».
«Ah, ecco. In italiano i colleghi del cugino Freddy non tirano fuori vermi dal naso ma fanno sputare il rospo».
«Fa schifo anche quello».
«Più che altro fa schifo l’idea di averlo mandato giù, il rospo! A quel punto tanto vale sputarlo».

E, in ultimo, dovremmo fidarci del fatto che – con la sua creatività – Le parole fanno il solletico abbia qualcosa di importante da suggerire perfino alla nostra, di immaginazione.

Potremmo pensare di saperla tenere già abbastanza allenata, ma non è detto che l’estro scatenato di due grandi giocolieri della parola non riesca a darle nuova linfa, anche perché è proprio dalle commistioni più atipiche e azzardate che possono prendere forma, a catena, tante altre suggestioni.

Un esempio emblematico, di cui neppure i due autori potrebbero essersi resi conto fino in fondo? Il titolo stesso.

Il suo richiamo all’aspetto più linguistico e a quello più scherzoso del testo è infatti evidente, come pure il rimando alle espressioni idiomatiche che hanno attinenza con la corporeità, e su questo siamo d’accordo.

Ma avevate notato che perfino solleticare è un verbo che si usa a sua volta in senso figurato, come sinonimo di stuzzicare o di stimolare?

Che cosa? Ma la fantasia, ça va sans dire!

All’inizio non ce la posso proprio fare. Mi dico che sono del tutto idiota, che ho la testa vuota e il cuore di pietra, non ho fegato e non ho polso, nessuna fantasia, niente da dire, raccontare, condividere. Da piccolo era lo stesso, coi temi. Restavo ore sopra il foglio bianco, con la testa fra le mani, a non scrivere niente. Poi alla fine andava sempre così: mi cadeva dal naso una prima goccia d’inchiostro, poi una seconda, poi una terza e allora riuscivo a cominciare a scrivere…

Fonte: www.illibraio.it

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