La bellezza e l’incanto dell’Italia, dei suoi monumenti e dei suoi paesaggi sorprendono sempre, capaci come sono di creare suggestioni uniche che possono anche tramutarsi in letteratura.
E lo sanno senz’altro bene il FAI (Fondo Ambiente Italiano) e IoScrittore, il torneo letterario promosso dal Gruppo Editoriale Mauri Spagnol che ha da poco dato avvio alla nuova edizione per il 2017. Insieme infatti hanno dato vita a La bellezza e l’incanto. L’Italia del FAI. Edizione 2016, che raccoglie i dieci racconti vincitori del concorso letterario “L’Italia del FAI”, aperto agli aderenti FAI under 35 e autori di testi ispirati ai beni tutelati e valorizzati dal Fondo Ambiente Italiano. Il concorso, il primo di questo tipo organizzato dal FAI, è stato promosso dalla Presidenza FAI Lombardia in collaborazione con il Centro per il Libro e la Lettura, Artplace, Diplomati della Scuola Holden, IoScrittore e il Libraio.it.
La bellezza e l’incanto. L’Italia del FAI. Edizione 2016, edita da IoScrittore, è già disponibile gratuitamente in formato online nei principali store online e al costo di 15 € nella versione cartacea.
«I racconti de La bellezza e l’incanto sono l’esempio di come un luogo possa essere presentato al pubblico in modo diverso dalla tradizionale spiegazione della storia, dell’arte e dello stile architettonico che lo caratterizzano – afferma Andrea Rurale, Presidente FAI Lombardia – Leggerli significa immergersi, con il cuore e con la mente, nella bellezza del nostro Paese».
«Il Gruppo editoriale Mauri Spagnol (GeMS) ha supportato con entusiasmo l’iniziativa del FAI pubblicando questo volume – dichiara Alessandro Magno, Direttore Area Digitale GeMS – Da anni, infatti, attraverso IoScrittore, GeMS dà la possibilità agli aspiranti autori di partecipare gratuitamente a un torneo letterario in rete e di confrontarsi con una comunità di attenti lettori e autori. In tal modo, non pochi partecipanti hanno raggiunto il grande pubblico e il successo. Inoltre, IoScrittore, nel corso degli anni, ha assegnato importanti premi tematici: è stato quindi naturale collaborare con il FAI per selezionare racconti capaci di unire la scrittura e la bellezza dei nostri luoghi».
Qui di seguito vi presentiamo uno dei dieci racconti finalisti, dedicato all’Antica edicola dei giornali, un piccolo gioiello liberty nel cuore di Mantova.
Si presentava così: “Vittorio Gandolfi, commerciante. Al vostro servizio” e ti porgeva la mano sudata.
Il suo mestiere consisteva nel partire dal paese che faceva buio, entrare in città verso l’alba e fino a metà mattina stipare il suo scalcagnato biroccio di tessuti, cordami, croste di artisti sconosciuti, immagini sacre e qualunque paccottiglia inutile i negozianti di Mantova tenessero in fondo al magazzino. Roba di nessun valore, truffe vere e proprie, ve lo dico io. Eppure giù a Castel d’Ario, a Bigarello, a Villimpenta e via così per tutta quella noiosa bassa senza orizzonte si spendevano volentieri una lira o due pur di mettersi in casa qualunque cosa provenisse dalla misteriosa ed esotica città. Fosse anche un quadro di un santo inesistente o un mobile d’epoca appena costruito, per citare due delle vendite più famose.
Ogni giorno, prima di rientrare, il Vittorio si fermava da noi in edicola e l’Ulisse, mio padre, gli imbustava quattro copie dellaGazzetta da recapitare al Bar Grossi, a Castel d’Ario.
Di quanto lievitasse il prezzo da qui a là non c’è dato di saperlo.
In questo modo a Castel d’Ario arrivavano i giornali. Beh, non proprio ogni mattina. Se faceva nebbia, per dire, e parlo di quelle nebbie fitte che adesso sono passate di moda, il Vittorio non partiva neanche. In caso di neve guai a svegliarlo. Se si era d’estate… Dovete sapere che qui da noi l’estate picchia in testa sul serio come un cappello troppo piccolo che spingi, spingi ma di farlo entrare non ce n’è proprio. Il padre di Vittorio, Steno, in paese lo chiamavanoOch,Oca. Dal suo vecchio il Vittorio non aveva ereditato solo il soprannome: aveva preso anche il becco. Erano gente che pativa la sete, i Gandolfi. Bevitori di razza, capaci con il caldo di seccare quattro mezze di Lambrusco entro l’ora in cui noialtri si metteva su il caffè. E magari accorgersi di essere ancora al mondo al tramonto, risvegliandosi sulle sozze panche di qualche osteria.
Insomma, i giornali in paese arrivavano sempre, quando arrivavano.
Tutti gli altri giorni da Castel d’Ario partiva il Nivola.
La Gazzetta di Mantova, 30 luglio 1900
L’ASSASSINIO DI RE UMBERTO A MONZA
L’Italia alla prova
L’edicola aveva aperto nel 1882. A noi Sicola non era mai mancato il pane sulla tavola ma mio padre non era tipo da accontentarsi. Sognava qualcosa di più. Di diverso. Così il suo cranio calvo sempre in fermento aveva partorito l’idea dell’edicola. Se l’era fatta costruire da un artigiano mantovano su disegno suo, dell’Ulisse. Diceva di essersi ispirato a una costruzione che aveva visto in un parco a Milano, una di quelle gabbie aperte sui lati dentro le quali, la domenica, si esibivano le orchestrine di passaggio. Il fabbro di suo aveva snellito la struttura aggiungendo finestre decorate in vetro finissimo e un pinnacolo di metallo in cima, sopra al coperchio, per darle un’idea di cielo, così aveva detto. Sulla scelta del luogo dove aprire, poi, l’Ulisse era stato inflessibile. “La gente bisogna prenderla dov’è” ripeteva sempre e dai e dai era riuscito a piazzare la sua casetta di ferro proprio davanti alla basilica di Sant’Andrea, tra il portico dei Sogliari e quello dei Mercanti: il cuore pulsante di Mantova. Sì, era un genio mio padre. E ci sapeva fare. Agli uomini di un certo livello, diceva, non gli puoi sbattere i giornali sul banco neanche fossero sardelle da impanare. Li devi piegare bene e in fretta. Se lo godano loro, non tu, il piacere ancora tiepido di sfogliarli per primi. Le signore, invece, vanno sempre inzuccherate con un complimento. Solo uno ma giusto; lusinghiero, mai sconveniente. “Proprio così,Giacum” diceva l’Ulisse. Che si convincessero di essere così speciali ma così speciali da volerti premiare con un piccolo acquisto in più, fosse anche una sola, misera cartolina. L’Ulisse aveva nelle mani una precisione da vecchia sartina e nella bocca la capacità di inanellare le parole di un prete appena uscito dal seminario. Gli affari andavano a gonfie vele e per me bambino era un’emozione osservarlo, chiusi insieme nel nostro covo di ferro battuto a sentire la città respirarci intorno. È in edicola che ho conosciuto il Nivola. Quando del Vittorio Gandolfi si perdevano le tracce a Castel d’Ario scattava l’allarme e il Nivola partiva. Venti chilometri. Con la nebbia, con il sole, con la neve, sempre in sella alla bici dello zio Giuseppe, il campione.
Frenava all’ultimo e diceva: “Il Vittorio non è partito.”
Oppure: “Il Vittorio non è tornato.”
“Quattro copie della Gazzetta, per favore.”
Poi chiedeva: “Cos’è successo oggi?” perché ancora non sapeva leggere.
Allora mio padre gli imbustava i giornali, si guardava intorno circospetto e gli sussurrava nell’orecchio la notizia del giorno, come un segreto da non rivelare.
Bisbigliava: “Domani si spegnerà il sole, preparati” e strizzava l’occhio.
Oppure: “Oggi è affondata Venezia, non si parla d’altro” e strizzava l’occhio.
O ancora: “Da oggi in tutto il Regno d’Italia è vietato regalare caramelle ai bambini” e gliene metteva subito una in mano.
“Busìa!”gridava divertito il Nivola e inforcata la bici correva a mangiarsi la pianura.
Quel trenta luglio il Gandolfi era steso alla Fragoletta, tramortito da trentanove gradi di temperatura e dodici abbondanti di Lambrusco.
“Il Vittorio non è tornato” disse il Nivola.
“Cos’è successo oggi?”
“Hanno ammazzato il Re” rispose mio padre.
“Busìa!” tuonò il Nivola e via verso Castel d’Ario.
Ma mio padre, quella mattina, l’occhio non l’aveva mica strizzato.
La Gazzetta di Mantova 7 settembre 1906
A MANTOVA IL CAMPIONATO ITALIANO DI MOTOCICLETTE
Al via i più noti e famosi motociclisti d’Italia
Vittorio Gandolfi l’hanno trovato una mattina del quattro sul fondo del lago Inferiore. A quanto pare dell’oca possedeva solo il becco. Le zampe no. Il suo biroccio fu rinvenuto capovolto a metà ponte. A pelo d’acqua galleggiava l’ultimo carico, una partita di false reliquie di San Giuseppe, patrono dei lavoratori onesti, e poi non si dica che il buon Dio manca di senso dell’umorismo.
Dopo la morte dell’Oca la mia frequentazione con il Nivola divenne quotidiana e intensa come solo a quell’età può essere un’amicizia. Io ero più vecchio di un paio d’anni e mi stavo facendo uomo in fretta. Lui, classe novantadue, tirava sì e no al metro e sessanta e a togliergli quella testa bislunga che si ritrovava ti sarebbe avanzato un metro scarso. Era un mingherlino, secco, ti potevi aspettare di vederlo frantumarsi in mille cocci da un secondo all’altro ma era un’impressione del tutto sbagliata. Perché il Nivola, nelle braccia e nelle gambe, aveva il fuoco. Erano piccole, corte ma traboccanti dell’energia indomita della pianura di cui era figlio.
“Cos’è successo oggi, signor Sicola?” continuava a chiedere ogni giorno, anche se ormai sapeva leggere.
“È successo che fanno due lire.”
“Non è mica la stessa cosa che è successa ieri?” esclamava allora il Nivola.
E poi aggiungeva: “Io e Giacomo andremmo un po’ in giro se ci accordate il permesso.”
“Andate andate” concedeva sconsolato mio padre “e se per caso trovate un po’ di voglia di lavorare in giro compratene. Dite pure che Ulisse Sicola passerà a pagare.”
Il mondo di mio padre iniziava e finiva nell’edicola e non riusciva proprio a capire cosa ci fosse di così sensazionale là fuori da spingerci ad andarcene con tanta urgenza. Io e il Nivola, però, abitavamo un luogo stupefacente e inquieto, i quindici anni, un luogo dove forse l’Ulisse era stato qualche volta ma di certo se n’era dimenticato. Mantova, per noi, era una terra inesplorata. E ricca di avventure. Nel cinque il Mercato de’Bozzoli di Piazza Castello aveva ospitato la prima esposizione nazionale di automobili e motociclette, la festa degli artigiani mantovani e dei loro prototipi geniali e puzzolenti. Lì, per la prima volta, vagando rapiti tra nuvole di gas di scarico, il Nivola mi aveva confidato che un tal Ferruccio Chinali, uno del suo paese, gli aveva fatto provare di nascosto una Dei modificata con motore Peugeot.
“Sei caduto sicuro” gli dissi io, sfidandolo.
“Certo che sono caduto” rispose lui mostrandomi orgoglioso la gamba grattugiata.
Nel sei, poi, fu proprio Mantova a ospitare il primo campionato nazionale di motociclismo.
Me lo ricordo come un giorno di sole quel sette settembre. Io e il Nivola, aggrappati alle grate di un finestrone per vederci meglio, ammiravamo i campioni delle moto sfidarsi lungo la Pista del Te. C’erano tutti i migliori. Ricordo il fragore della folla, il rumore insopportabile degli scoppi dei motori, la polvere che saliva. Ricordo gli occhi rapiti del Nivola in adorazione del Beccari, un meccanico che si era costruito il suo bolide da solo e con quello aveva vinto la gara.
Adorava la velocità. Il Nivola. Le moto erano la sua passione, allora. Poi sarebbero arrivate le auto.
“Anch’io correrò un giorno, signor Sicola” disse mentre io riaprivo l’anta di ferro e mi accovacciavo nel nostro confortevole nido di metallo.
“Corri ben a casa va, che laGazzettadiventa vecchia” la fece spiccia mio padre.
Ma il Nivola era uno che le promesse le manteneva. Sempre. Nonostante la guerra.
[I servizi di Sul Romanzo Agenzia Letteraria: Editoriali, Web ed Eventi.
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La Voce di Mantova 18 giugno 1924
MANTOVA: MANIFESTAZIONE A FAVORE DEL GOVERNO
Mussolini: l’omicidio Matteotti vile pretesto dell’opposizione per attaccarci
“La Gazzetta di Mantova, signor edicolante” scherzava il Nivola.
“Non ce l’ho gentile cliente” rispondevo io.
“Cercate meglio.”
“Non la trovo.”
“Voi non trovereste neanche Gesù nell’orto” diceva allora lui e la storia andava avanti un po’. La verità è che la Gazzetta potevo cercarla anche un giorno intero ma non l’avrei mai trovata. Chiusa fino a data da destinarsi per ordine del prefetto fascista e sostituita dalla Voce,organo sotto stretto controllo del Partito. Erano anni difficili da decifrare. Da una parte il peggio sembrava passato. La guerra era finalmente alle spalle. La febbre Spagnola, che a Mantova aveva fatto più morti di Caporetto, era stata debellata. Persino la miseria, da qualche tempo cittadina onoraria della città, sembrava sul punto di allentare la sua morsa. Dall’altra parte, però, pesava sui nostri cuori un macigno d’incertezza. Mantova, eterna ragazza, si stava facendo donna: per forza. Così come l’Italia, così come me e il Nivola che ormai eravamo diventati uomini. Lui era stato autiere sul Carso, fino al diciassette, congedato per un focolaio di tubercolosi. Tornato al paese aveva rapito una certa Carolina, se l’era sposata a Milano con rito civile e l’aveva messa incinta. Ce n’era abbastanza di che sparlare per anni a Castel d’Ario. Così il Nivola, la moglie e il piccolo Giorgio si erano trasferiti in città. Al Nivola Gesù non era mai andato tanto a genio. Troppo buono, diceva. Troppo lento, diceva. Il Nivola, che ambiva a correre più veloce del tempo, la faccenda dei tre giorni non gliel’aveva mai perdonata.
“Se ero onnipotente io tre minuti ci stavo nel sepolcro” sparava spavaldo, tendendo gli eccezionali muscoli che aveva nelle braccia.
Quel Mussolini, invece, all’inizio sembrava piacergli. Uomo d’azione, come lui. Feroce. Determinato.
“E poi mi stanno proprio simpatici i pelati” diceva, picchiettandomi ogni volta con dolcezza sul cranio calvo. Sì, anch’io ero diventato uomo. E da me si vedeva dalla testa. E dal fatto che dopo il pensionamento dell’Ulisse i clienti non fossero per niente calati. Anzi.
Non avevo la sua parlantina, magari, ma le lunghe lezioni sul campo a qualcosa erano servite. Si lavorava bene con i giornali, le cartoline e qualche piccolo oggetto di antiquariato. Si lavorava talmente bene che eravamo addirittura d’intralcio, nel traffico caotico di quella piazza. Le spose ci sbattevano quasi contro, la domenica, entrando in chiesa. Da tempo il comune ci aveva chiesto di spostarci ma l’Ulisse si era sempre opposto con fierezza. Io, dopo lunghe insistenze, avevo ceduto. Ci avrebbero riposizionati nel venticinque, più o meno un anno dopo quel delitto Matteotti di cui ancora non sapevamo pesare l’importanza. Spostarono l’edicola di peso, ferro, vetro, lamiera, tutto in colpo. La nostra nuova casa divenne Piazza Canossa, davanti al palazzo di Matilde. Laggiù ricominciò la nostra storia. Erano gli stessi anni in cui il Nivola diventava leggenda.
La Gazzetta di Mantova, 3 giugno 1946
È REPUBBLICA
A Mantova la Monarchia si ferma al 31.17%
Non era più solo mio, il Nivola. Era di tutta Mantova ormai. Vedeste quanta gente si appostava intorno all’edicola solo per guardarlo arrivare. Stringergli la mano. Strappargli un sorriso, una parola. Lo ammiravano come si ammira un soldato a cavallo. Gli uomini si toglievano il cappello, le donne impazzivano: “Com’è forte! Com’è bello!” sospiravano trasognate e caro Nivola, vecchio mio, bene te ne volevo allora e te ne ho sempre voluto ma un granché bello non lo sei mai stato. Eri un campione, però, e del campione avevi lo stile, l’eleganza. La fama. “L’animale più lento per l’uomo più veloce” scrisse D’Annunzio regalandoti una tartaruga d’oro e a Mantova non si era parlato d’altro per mesi. Sorridevi a tutti, avevi una buona parola per ognuno, eri un vincente. Ma io, solo io che ti conoscevo così bene, sapevo tutto del dolore che ti portavi dentro. Giorgio e Alberto, figli amati, morti stupidamente entrambi, a diciotto anni. I tuoi polmoni, provati dalla tubercolosi e dai gas di scarico, t’impedivano di respirare al meglio. E poi c’erano stati la guerra, la morte, i bombardamenti del quarantaquattro che avevano sfiorato la tua casa, l’odio che a via a via ti era montato contro quei fascisti arroganti. E l’odio più grande ancora: quello per le auto. Le odiavi, Nivola. Le odiavi così tanto da non poterne fare a meno. Continuavi a metterti la tuta, a respirare quella puzza, a indossare i guanti. Cercavi nella velocità una serenità che non esisteva, né a Monza, né a Donnington, né alla Targa Florio, né in qualunque luogo avesse contribuito a costruire il tuo mito. Meno male che ti era rimasta l’edicola di Piazza Canossa. Noi eravamo ancora lì, la tua oasi in città. Dove si poteva parlare dei giorni di Sant’Andrea, della bici di cui non toccavi quasi i pedali. I giorni in cui eri solo e semplicemente il mio caro amico Nivola. LaGazzetta era tornata, con lei tutti gli altri giornali e con loro la gente che aveva le ossa rotte ma una gran voglia di ripartire.
“Saremo una Repubblica quindi” mi dicesti il tre giugno.
“Sì” sorrisi io.
“Dammi quattro copie della Gazzetta.”
“Quattro?”
“Ben imbustate mi raccomando. Ho degli amici da salutare a Castel d’Ario.”
E inforcata la bici, tossendo, ti eri allontanato felice, come un bambino incontro al mondo.
La Gazzetta di Mantova 12 agosto 1953
SI È SPENTO TAZIO NUVOLARI
Addio al Mantovano volante
Sei fuggito via, Nivola, amico mio. In fretta, come sempre. Hai scelto un agosto qualunque, bollente e sonnacchioso, uno dei tanti che abbiamo vissuto insieme. Avessi visto quanta gente c’era in Piazza Canossa quella mattina. Chi ti ricordava bambino. Chi mi abbracciava stretto come si abbraccia una vedova inconsolabile. Chi appoggiava un fiore bianco sul ferro rovente che come ogni giorno anche quel dodici agosto mi custodiva. Ognuno aveva una storia da raccontare. Di quella volta che nel trenta hai superato Varzi all’alba, sull’ultimo tratto della Mille Miglia, dopo averlo tallonato tutta notte a fari spenti, per non farti vedere. E quell’altra, in Germania: te lo ricordi? Quando hai messo nel sacco i tedeschi, nel trentacinque, proprio in casa loro. I gerarchi mica l’hanno presa bene. Non avevano neanche una bandiera italiana da issare. E tu, bello come il sole, hai detto: “Ce l’ho io la bandiera” e l’hai tirata fuori dall’abitacolo ancora piegata. Eri matto da legare, Nivola, amico mio. Olio, potenza e leggenda in un metro e sessanta di nervi. Siamo stati chiusi per lutto, il giorno del tuo funerale. Tutta Mantova si è fermata per salutarti. Poi, la vita è ricominciata. I negozi hanno riaperto, le macchine del caffè sono state accese di nuovo, nel menù della Fragoletta i tuoi adorati bigoli alle sardelle sono diventati ‘Bigoli Nuvolari’. Tutto è ripartito. Io no. Sì, Nivola, io quel giorno avevo deciso di chiudere per sempre. La mia storia, la storia dell’Ulisse, finiva allora, con te. Quel ferro, quel vetro, le assi di legno su cui avevo appoggiato i piedi per mezzo secolo erano rimaste senza benzina, come il tuo infiacchito motore. Persino la carta non faceva più odore dall’ultima volta che eri venuto a dirmi come sempre: “Busìa!” prima di scappare via. Verso nuove piste, immaginavo. E avevo ragione.
La Gazzetta di Mantova, 21 luglio 1969
ARMSTRONG E ALDRIN SULLA LUNA
Il primo passo alle 4.57
Non riuscivo a cominciarla questa storia. Sapeste quante volte ho preparato la penna e ho ammucchiato i fogli, ben ordinati, davanti a me. Niente: non usciva una riga. Ho provato nel salotto di casa, di fronte alla foto di mio padre, davanti alle vecchie cartoline illustrate che vendevamo allora. I ricordi di una vita. Poi sono andato in riva al lago, proprio nel punto dove l’Oca aveva starnazzato l’ultima volta. Niente: la mia mano sembrava paralizzata. È stata una mattina di luglio, passeggiando per Piazza Canossa, che mi è venuta un’idea. Mi sono avvicinato all’edicola, ho salutato Gabriele, il ragazzo cui l’ho venduta qualche anno fa, e ho chiesto: “Disturbo se vengo dentro con te?” “Vecchio rincitrullito” avrà pensato, e, forse per pietà, mi ha aperto la porta. Una volta dentro, come per magia, la memoria ha iniziato a correre. E con lei la penna. Tu non ne hai mai voluto sentir parlare di Dio, vecchio Nivola, ma è stato Lui in persona a guidare la mano di chi ha scritto i Vangeli. Ecco, quest’edicola ha fatto la stessa cosa con me. Come ho fatto a non capirlo prima? Ci sono luoghi che osservano la storia, la rubano, la fanno loro. Diventano quelle storie, un giorno o l’altro. Ci sono luoghi che respirano, Nivola, questa è la verità. Questo posto, il nostro posto, ha polmoni di vetro, inspira aria dalle sue finestre decorate e la rilascia purificata come un albero piantato sull’asfalto. Il suo cuore non è solo ferro, non è solo materia inerte: è carne, in un certo senso. Attira le emozioni della città, i suoi turbamenti, le sue intime commozioni e le incamera nella lucida pelle di metallo di cui è avvolta. Poteva essere scritta solo qui la nostra storia perché non siamo noi i protagonisti. È lei, Nivola. L’edicola di Piazza Canossa. Lei che non invecchia, non soffre, non muore. Lei, che non ha mai chiuso, alla fine, perché ho pensato che tu avresti voluto così. L’ho venduta, quello sì, ma ho chiesto che fosse preservata, com’era, com’è, come sarà. C’è un ragazzo dentro, mi piacerebbe presentartelo. Uno che i giornali li sa piegare sul serio, non li sbatte sul banco come si vede fare di questi tempi. Uno che va di fretta ma sa frenare quando è il momento giusto, come sarebbe piaciuto a te.
Anche se la voce del ferro mi ronzava nelle orecchie dal primo giorno che sono tornato, ho voluto aspettare oggi per scrivere l’ultima riga. Perché ho delle notizie fresche da riferirti, amico mio.
Senti questa: l’uomo è volato sulla Luna. Busìa? No, verità Nivola. Due americani, i loro nomi sono Armstrong e Aldrin. Penso che siano venuti a cercarti, sai? Poveri illusi! Credevano forse che uno come te si fermasse alla Luna? No, tu sei molto più su e stai correndo, non so come, non so dove, ma stai correndo.
L’altra notizia, Nivola, è che anch’io sto partendo per venirti a cercare. Sono vecchio, ho tanta voglia di vederti e penso che la mia storia sia stata scritta ormai. L’edicola rimarrà qui, ad assorbire altri racconti. Altre emozioni. Io, invece, arriverò un giorno o l’altro. Fatti trovare mi raccomando.
Come dici? Certo, Nivola, non preoccuparti.
Stavolta la Gazzetta te la porto io.
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