Alice Basso ha conquistato il cuore di una schiera di fedelissimi lettori (e soprattutto lettrici) con la serie di gialli ironici e divertenti dedicati alla ghostwriter e detective Vani Sarca. Pubblicato tra il 2016 e il 2019 con Garzanti, il ciclo iniziato con L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome, è stato un successo di vendite e di pubblico e Alice Basso, dopo l’ultimo capitolo, Un caso speciale per la ghostwriter, è pronta per una nuova avventura. La sua prossima fatica, in libreria a luglio, si intitola Il morso della vipera e, anche in questo caso, è il primo di una serie dedicata a una nuova protagonista: Anita, una dattilografica che indaga nella Torino degli anni Trenta.
Com’è arrivata alla pubblicazione del suo primo libro?
“È una storia che mi fa piacere raccontare, lavoro come redattrice e editor, e spesso capita che le persone pensino che io sia arrivata a pubblicare perché conoscevo già l’ambiente. In realtà ho sempre lavorato solo per la saggistica, e qualche volta per la narrativa per ragazzi. Quello della narrativa italiana, prima di pubblicare, per me era un altro mondo. Quando ho scritto il primo romanzo di Vani Sarca ho puntato su un’agenzia. Era il 2013 e c’erano in giro più agenzie che non facevano pagare per la valutazione: nonostante io pensi che gli agenti abbiano ragione a far pagare la loro consulenza, anche quando magari rifiutano il manoscritto, ammetto che, nel 2013, forse se avessi trovato solo agenti a pagamento ci avrei pensato di più. Insomma, ho cercato un’agenzia e ho mandato il manoscritto. E tra l’altro in un momento pessimo: non mandate mai i vostri manoscritti il 7 di gennaio, o il primo di settembre! È il periodo in cui di solito chi ha un romanzo nel cassetto, dopo esserselo coccolato per tutte le vacanze, trova il coraggio di spedirlo. E così il valutatore si trova sommerso di cose da leggere e il rischio di farsi scartare diventa più alto”.
Come ci ha detto, è anche una professionista del mondo editoriale. Le conoscenze che ha acquisito le sono state utili nel suo percorso di scrittrice?
“Assolutamente sì, per prima cosa nel rapporto con il mio editor. Se tu per primo sei un editor, conosci già una serie di dinamiche: per esempio che si può dover correggere molto, dare molti suggerimenti, ma non per questo perdere stima nei confronti del libro. Anche perché un libro che è già sotto contratto è piaciuto all’editore, per cui il giudizio non può essere negativo. Invece, un autore che magari si trova per la prima volta a lavorare con un editor, davanti alle critiche e alle correzioni rischia un crollo di autostima. Sapere che è un processo normale ti permette di lavorare con più serenità, e questa per me è stata un’enorme fortuna”.
A proposito di editor, cosa le ha dato il rapporto con la casa editrice?
“Sin dal primo libro avevo la speranza di poter fare un ciclo: Garzanti era d’accordo e questo ha sancito il nostro rapporto sulla lunga durata. Però devo dire che, anche se non fosse stato un ciclo ma cinque libri diversi, con Garzanti mi sono sempre trovata bene. È una casa editrice affidabile dal punto di vista della distribuzione e della visibilità, facendo parte di un grande gruppo editoriale, ma ha anche una dimensione a misura d’uomo, a misura di scrittore. La redazione è piccola, hai un contatto reale con le persone, se c’è qualcosa che va messo in discussione, che va rivisto, si prodigano a parlarne, hai sempre un colloquio approfondito. E queste sono cose belle”.
Quali sono gli ingredienti imprescindibili per la serialità?
“La potenza del protagonista, perché tutto sta nel far affezionare il lettore a quel personaggio lì, a volerlo poi rincontrare come un amico. Certo, sono importanti anche le situazioni di contorno, il paesaggio, la comunità in cui si svolge la storia, però se il personaggio non rimane in mente al lettore la tua serialità comincia già zoppicando. Io avevo un problema molto specifico a questo riguardo: Vani Sarca, la mia protagonista, fa la ghostwriter, e quindi la sua caratteristica principale è l’assumere voci sempre diverse. E questo aspetto mi piaceva, perché mi permetteva di calarla in contesti differenti, però il rischio con un personaggio troppo camaleontico è che non si imprima nella memoria, che non abbia un’identità così forte da poterci costruire una serialità intorno. E quindi, per bilanciare il rischio di evanescenza che poteva avere la sua professione, ho lavorato alla caratterizzazione di Vani dandole un caratteraccio molto impositivo, quasi troppo”.
Al momento della stesura del primo romanzo, aveva già un canovaccio degli altri episodi della serie?
“Appena il primo romanzo è stato accettato ho scritto la trama di tutti i successivi. Io procedo per scalette, mi permettono di ottimizzare i tempi, avere le idee chiare, evitare le incongruenze lungo il percorso, e così via. E adesso che sto lavorando a nuova serie sto facendo esattamente la stessa cosa, mi fa sentire padrona della situazione”.
E da che aspetto parte?
“I personaggi sono la cosa più importante, perché sono trasversali a tutta la serie e quindi mi interessa avere un gruppetto di persone con le quali stare bene, perché alla fine te li devi portare dietro per un po’ di anni, quindi è meglio se ti sono simpatici. Dopodiché costruisco le trame, libro per libro, pensando in prospettiva sul lungo periodo. Immagino la macrostoria che dal punto iniziale arriva all’ultimo libro e, a quel punto, mi occupo dei singoli libri e sviluppo la trama di ciascuno. Alla fine, un romanzo alla volta, il contenuto capitolo per capitolo. E solo quando sono arrivata a questo punto scrivo veramente”.
È molto metodica.
“Sì, ma ci tengo a dire che questo mio essere così metodica nelle scalette non implica un modo di scrivere ragionieristico solo perché è tutto impostato. Per me poi la parte di scrittura vera e propria è molto divertente, perché mi sono tolta prima tutti i problemi di struttura, di decidere ‘cosa’ scrivere e ‘quando’. Insomma, a quel punto c’è solo il divertimento sfrenato del ‘come’, perché non devo mai astrarmi e guardare dall’alto la storia interrompendo la scrittura. A quel punto lì è proprio un getto continuo di gioco”.
Nel suo metodo figura anche la pratica giornaliera?
“No perché avendo, come tanti altri, un lavoro a tempo pieno devo adattarmi a scrivere quando sono libera. Per cui scrivo sul treno, o la sera, oppure in pausa pranzo in ufficio, va bene qualsiasi momento. E in questo le mie scalette mi aiutano tantissimo, perché ovunque mi trovo mi è molto più facile rientrare nel flusso della storia senza dover fare un grande sforzo di concentrazione. Insomma no, da questo punto di vista non sono assolutamente metodica”.
Quanto ha messo di sé nella costruzione della sua protagonista, Vani Sarca?
“Tutti si aspettano che ci sia quasi una sovrapposizione perfetta fra autore e personaggio, in realtà non è mai così. Mi sono divertita molto a creare Vani, è quasi un personaggio fantascientifico: così scontrosa, così senza peli sulla lingua, dice cose che, a dirle nel mondo reale, verresti licenziato dopo quattro secondi. Ma alla fine con Vani ho pochissimo in comune: l’ambiente di lavoro, anche se io non ho mai fatto la ghostwriter, il fatto di non cucinare, l’essere un po’ schiava della battuta, anche quando faresti meglio a stare zitta. Però sono veramente minuzie”.
Se dovesse dare un solo consiglio a un aspirante scrittore, quale sarebbe?
“È un consiglio molto pratico: cura molto bene la lettera di presentazione. In questi anni ho visto tantissime persone autosabotarsi, mettendo tutte le energie e tutta la cura possibile nel manoscritto, per poi spedirlo con una lettera d’accompagnamento sciatta e non efficace. Le persone partono dal presupposto che il valutatore debba per forza leggere tutto quello che gli arriva e che gli viene proposto. In realtà no: l’aspirante scrittore che manda il suo manoscritto deve convincere il valutatore ad aprire proprio quel manoscritto lì, a dargli una possibilità tra tutti quelli che arrivano. Forse dall’esterno non ci si rende conto della mole di proposte editoriali che arrivano sulle scrivanie. E quindi secondo me è molto utile, per chi ha qualcosa di veramente valido da proporre, fare un po’ di training anche su questo aspetto, sul come presentarsi, è una cosa che nessuno insegna. Spesso si cura solo la scrittura e non la comunicazione, mentre quando entri in contatto con l’editore poi diventi in qualche modo un suo collaboratore, un professionista che lavora con lui. Anche questa immagine dello scrittore che vive svincolato dalle logiche della professionalità, della casa editrice, è sbagliata. L’autore deve essere qualcuno con cui si può collaborare, dev’essere affidabile, deve avere rispetto delle scadenze, del lavoro altrui. C’è tutto un approccio professionale che va riscoperto e incentivato”.
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