L’incipit spalanca la porta su un mondo nuovo, ignoto, e il lettore vi si affaccia, desideroso di abbandonare il proprio mondo, la propria quotidianità
C’è chi lo riscrive mille volte; c’è chi lo lascia per ultimo; c’è chi non può andare avanti se non ce l’ha; c’è chi lo cambia all’ultimo momento.
L’incipit di un romanzo è una brutta bestia: ma è giusto che sia così. Perché l’incipit spalanca la porta su un mondo nuovo, ignoto, e il lettore vi si affaccia, desideroso di abbandonare il proprio mondo, la propria quotidianità.
Purtroppo Per fortuna, i modi per aprire la porta sono pressoché infiniti: qualche autore la sfonda con violenza [«Sparano prima alla ragazza bianca. Per il resto c’è tempo.» (Toni Morrison, Paradiso)], altri la schiudono con un sorriso ironico [«Il Nobilis Homo Cipriano de’ Marpioni, col crescere della prole, aveva dovuto allargarsi.» (C.E. Gadda, Quattro figlie ebbe e ciascuna regina)], altri con un cigolio sinistro [«Una volta gli assassini venivano impiccati a Four Turnings.» (Daphne Du Maurier, Mia cugina Rachele)], altri ancora si limitano a farla girare sui cardini, scoprendo una realtà che, fino a un istante prima, per il lettore non esisteva [«In un buco del terreno viveva uno Hobbit.» (John R.R. Tolkien, Lo Hobbit)].
Che cosa voglio raccontare? chiede l’incipit all’autore. E soprattutto, come lo voglio raccontare? Quale voce intendo dare a queste parole?
Quali colori, quali emozioni sto per consegnare al mondo che mi accingo a raccontare? Se si riesce a rispondere, la strada si distende, diventa un po’ più pianeggiante… almeno finché, all’orizzonte, non spunta il fratello dell’incipit: l’explicit, il finale. Ma di questo, magari, parleremo dopo aver percorso almeno un tratto di strada…
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